venerdi sera gruppo di ricerca medianica e spiritismo

Quelli che sono morti non se ne sono mai andati sono nell’ombra che si rischiara e nell’ombra che si ispessisce I morti non sono sotto la terra sono nell’albero che stormisce, sono nel bosco che geme, sono nella dimora, sono nella folla Ascolta più spesso la voce del fuoco, odi la voce dell’acqua ascolta nel vento del cespuglio i singhiozzi è il soffio degli antenati I morti non sono sotto la terra, sono nel seno della donna. sono nel bimbo che vagisce sono nel fuoco che si spegne

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20 novembre 2006

diecinovembre 06


Ancora, adesso io, Emanuele, per il cerchio, il cerchio spiritico.

Questa sera desideravo parlarvi della sofferenza, però sento, mi accorgo che sono forti le pressioni delle domande inespresse da parte vostra e a volte fanno più rumore di un boato. Pertanto cercherò di rispondere a qualcuna di esse, anche se so che sarà difficile, sarà difficile riuscire ad accontentare tutti quanti con delle parole, con dei termini….
Probabilmente il mio messaggio migliore, la somma di tutto quanto, che soddisferà tutti quanti voi, sarà quando io più nulla dirò e voi sarete veramente in grado di essere medium di voi stessi con la giusta portanza, con la giusta riconoscenza.
Esistono molti modi per credere, per dare forma e sostanza a quella che noi chiamiamo fede, esistono molti modi per poterla soddisfare, alimentare, rendere forte. Io ne ho conosciuti sicuramente due, durante la mia vita terrena. Il primo modello di fede fu quello del mio maestro – anch’io ebbi un maestro – non era certo l’abate priore…era forse l’ultimo di quei monaci, però io lo riconobbi come maestro; lo riconobbi come maestro ma non riconobbi la sua strada, il suo modo di perseguire la fede. La sua fede non era la mia, ma era sicuramente una fede genuina, forte, salda, che da lui era riconosciuta e io riconobbi in lui questo riconoscerla e lo rispettai, dando bontà a questa sua strada, a questa sua fede. L’immagine di Cristo era talmente radicata in lui, che ogni sua azione era ad imitazione di Cristo.
Per me, all’inizio, era incomprensibile questo suo modo di agire, ma tante piccole occasioni e fatti, mi diedero misura di quella che era la profondità della sua fede che, torno a dire, non condivisi, non fui in grado di comprendere e non riconobbi in me, ma che sicuramente – ripeto – per lui fu genuina, forte. Vi cito solo un esempio che riguardava la carità. Per me il concetto di carità era un concetto astratto; io, di famiglia ricca, non avevo problemi, difficoltà a fare carità a chi aveva bisogno: ero magnanimo, io elargivo a piene mani.
Anche questo mio maestro desiderava essere caritatevole, ma per lui era più difficile essere così magnanimo come io lo ero, non perché fosse povero ma perché realmente lui professava la carità.
Quando lui dava da mangiare ad un affamato, di conseguenza lui saltava il suo pasto.
La cosa mi provocò così tanto che pensai alla sua pazzia, ma lui realmente faceva in questo modo: quando lui offriva del pane al bisognoso, lui quella sera non mangiava pane né null’altro. La sua carità era privare sé stesso di ciò che donava all’altro.
Per me era incomprensibile, ma diede reale misura di quella che era stata fino ad allora la mia, di carità. Io davo a chi aveva bisogno ciò che non mi apparteneva, io non mi privavo di nulla per dare al bisognoso. Il mio maestro, che comunque avrebbe potuto farne a meno, privava sé stesso del cibo che donava all’altro e per lui tutto ciò aveva senso, non era follia, non era demenza legata alla sua veneranda età, ma era una scelta genuina che andava ad alimentare la sua fede nell’imitazione di Cristo.
Ebbi reale spessore di questa fede, altri fatti e altre occasioni diedero misura di ciò che voleva dire per questo il mio maestro: professare la sua fede in Cristo. Io non mi riconobbi capace, non fui in grado di accettare questa croce e identificarmi in essa, però diedi un po’ più di misura di ciò che era stata fino ad allora la mia professione di fede, diedi misura reale di quella che era stata fino ad allora la mia beneficenza e ciò mi costrinse a rivedere, riverificare, rimisurare ciò che era stato fino ad allora il mio essere prete.
La mia fede era diversa, io dapprima avevo bisogno di dare senso a ciò che facevo nel nome della fede. Dapprima dovevo dare senso alla mia mente, al mio raziocinio, ero molto lucido in questa mia visione e il timore della follia – che era una follia che era una follia appartenuta alla mia famiglia – limitava molto il mio agire nella libertà; avevo bisogno di dare senso alla mia mente per ciò che sceglievo di fare, avevo bisogno di dare senso, comprensione, precisa comprensione di ciò che facevo.
Sempre portai avanti questa visione analitica del mio fare, del mio essere cristiano e la portai anche dopo di quella che per me è stata la grotta di Qumran, questa mia concezione.
Io avevo sempre e comunque bisogno di dare senso a ciò che abbracciavo dichiarandolo mio.
Non era più un soddisfare la mente, era più un soddisfare un livello di coscienza più profondo che andava aldilà della mente e del corpo, ma sempre però ho avuto bisogno di dare senso al mio agire e, credetemi, è possibile trovare questo senso e – trovando questo senso – alimentare la propria fede e camminare sulla strada giusta. Essa non è migliore né peggiore di quella del mio maestro; è sicuramente più tribolata, non esiste dubbio, la verifica continua è il sentirsi partecipe, il comprendere, fare proprio l’agire quotidiano. A volte è logorante, ma se questo è il tuo modo non hai scampo, se non professare la tua fede in questi termini, in questa ricerca, in questa soddisfazione di senso di appartenenza……..è più difficile, torno a dire, è più logorante, ma per me era anche più appagante.
Io cercai l’interruttore che faceva scattare la mia fede cieca, ma non l’ho mai trovato; neanche quando, nudo e scarnito, nella grotta di Qumran mi trovai, non mi fu data capacità di premere quest’interruttore…ma proseguii in questo mio modo di professare la mia fede.
Anche in merito alla sofferenza ci possono essere questi due atteggiamenti; la sofferenza tua e in modo particolare quella degli altri, può essere accettata come dichiarazione di fede in Cristo, per chi si riconosce in questo modo, ma per me – che senso sempre ho dovuto trovare – anche della sofferenza ho cercato senso e collocazione nel mio modo di credere ed è possibile, ne sono certo, e sono certo perché ho trovato tracce di comprensione che però, credetemi, non è possibile travasare, donare all’altro: appartengono ad un tuo percorso, appartengono ad un tuo riscontro…ma esiste questo modo.
Se il bisogno di verificare, di dare senso al proprio agire anche a voi appartiene, credetemi, è possibile professarlo e ottenere soddisfazione, sazietà in questo modo di camminare; anche in questo modo si può alimentare la fede, trarre gioia, riscontro dal proprio cammino.
Dare senso alla sofferenza, dare senso alla propria sofferenza e in modo particolare a quella degli altri. È una sfida dura, impervia, ma possibile.
Non serve a nulla abbandonarsi alla fatalità; esiste un modo di dare senso alla sofferenza. La mia è una affermazione, non più una domanda. Interrogatevi su ciò.
Questi due modi di professare la propria fede danno anche misura di ciò che sono le presenze che avvengono in questo cerchio, delle entità trapassate. È impossibile credere che dopo la morte esista un livellamento, che tutto si fermi, che tutto quanto diventi monocolore. Infinite variazioni per quante infinite presenze appartengono alla nostra dimensione, così come è per la vostra dimensione: infinite variazioni come infinite persone esistono.
Ci sono persone che dopo la morte non hanno più bisogno di tornare ad attingere alla dimensione dell’umano: sono quelle che nel loro disegno, nel loro patrimonio di talenti, ha permesso loro di andare oltre, in un unico balzo, attraverso un’accettazione profonda di quella che è la propria fede, che non è una fede su un’unica convinzione di bene, ma sulla propria individuale concezione di bene. La fede cieca può essere un regalo, un dono prezioso. La fede da alimentare, da sfamare, è altrettanto un bene prezioso perché crea dinamismo, ricerca, voglia.
Io ho conosciuto due modi di professione di fede ma, ve lo ripeto nuovamente, ne esistono svariati per quanto svariate sono le presenze, le individualità. Ancora una volta, torno a ripetere, non esiste un solo bene, un’unica traccia. Ed è anche per questo che ho cercato di dirvi che quando la mia voce più nessuna parola con senso avrà…finalmente avrete ricevuto il messaggio.
Vi invito a dare voce alle vostre domande perché, credetemi, le domande inespresse sono più rumorose delle domande espresse…………………………………………………………………….
È tempo, è tempo per me ora di terminare, a voi tutti il mio saluto, arrivederci.

Ancora, adesso io, A, per il corpo comune.
Vorrei cercare di dire qualcosa, anche se ancora faccio fatica, riguardo a quello che è il mio bisogno di rincontrare mio padre.
Io ho avuto diverse….sicuramente due diverse aspettative e percezioni di quella che fu la figura di mio padre. Mio padre rimane un’immagine confusa, un poco rude, che appartiene a un’età in cui avrei invece avuto bisogno di parole dolci, di abbracci….e la mancanza di soddisfazione di questo mio bisogno mi ha fatto pensare a mio padre come a una persona cattiva. Io ho vissuto la mia vita avendo bisogno di questo; io ero stato in qualche modo – non solo io, anche mia madre – abbandonato da quest’immagine confusa che era mio padre e io condii la mia vita con il ricordo di un padre cattivo. Non lo incontrai più e non poteva che essere in questo modo…non mi è stato dato scampo.
Oggi, che sono disincarnato, ho comunque ancora bisogno di mio padre e l’immagine di un padre cattivo non trova più spazio nel mio cercarlo. Io oggi ho bisogno di un padre buono….non sarei in grado di sopportare una presenza negativa. Qual è allora mio padre, quale dei due: il padre che oggi cerco e di cui ho bisogno o quello che invece accompagnò il mio vivere?
Io non so quale dei due sia mio padre, ma oggi ho la quieta certezza e tranquillità di volerlo incontrare. So che l’evocazione di mio padre darà sprazzi di ciò che è stato e di ciò che è ancora A, ma sono certo che accetterò tranquillamente il riconoscerlo in queste immagini.
Perché non l’ho incontrato qui, dove oramai tutti e due siamo disincarnati?
Ma proprio perché la zavorra appartiene al vostro mondo dell’essere incarnato…..è il peso che grava ancora su A.
Esistono molte entità attorno ad un cerchio spiritico, desiderose di evocazione, perché attraverso l’evocazione esse possono nuovamente aiutare i cari che ancora vivono…..fate spazio…..
La catena ora. È importante che la facciamo, è ancora importante che la facciamo.
Cerchiamo tutti gli amici che con noi la compongono, chiamiamoli per nome, chiamiamo i nostri cari a dare forza a questa catena….. cerchiamo i loro volti, facciamo spazio affinché possano accomodarsi accanto a noi, a dare consistenza a questa catena.
Poniamo C. al centro del nostro corpo comune, la sua candela è già accesa e le illumina il viso, cerchiamo di coglierne gli occhi, riconosciamone i particolari del viso….. sta chiedendo aiuto.
Sentiamo l’energia che scorre in questa catena, lasciamoci colmare da essa e offriamola all’amico che accanto a noi si trova.
c. sta soffrendo e la sua sofferenza ci deve far soffrire….è anche la nostra e ogni tanto è anche il caso di ricordarcelo, io ne ho bisogno……
Lasciamo ora C. visualizziamo il nostro prato, lo spazio all’interno della catena….. è uno spazio di pace; ricordiamo in esso i nostri cari che hanno bisogno, certi di poterli aiutare, confortare e con loro condividere……
Ringraziamo ora gli amici che sono stati con noi, grati del loro aiuto.

Io sono certo di volere qualcosa da mio padre, e di volere qualcosa di preciso da lui, e ciò è sbagliato……
Vado ora, un bacio a C. e a voi tutti, amici.