venerdi sera gruppo di ricerca medianica e spiritismo

Quelli che sono morti non se ne sono mai andati sono nell’ombra che si rischiara e nell’ombra che si ispessisce I morti non sono sotto la terra sono nell’albero che stormisce, sono nel bosco che geme, sono nella dimora, sono nella folla Ascolta più spesso la voce del fuoco, odi la voce dell’acqua ascolta nel vento del cespuglio i singhiozzi è il soffio degli antenati I morti non sono sotto la terra, sono nel seno della donna. sono nel bimbo che vagisce sono nel fuoco che si spegne

Nome:

28 giugno 2006

ventitregiugno 06


Il mio nome era S. e ancora oggi S. mi chiamo.
C’è molta confusione in questo mio angolino; venerdì sento di aver scoperchiato un otre e aver lasciato che fluisse da esso, senza controllo, ciò che in esso si trovava e un po’ questo mi ha spaventato, anche se credo che sia giusto che ciò avvenga in questo modo, in questi termini, con questa modalità.
Però, un pochino, devo dire, mi sono sentito intimorito – non so se intimorito è il termine giusto – anche perché… che senso avrebbe, così come ben dice A., qui dove mi trovo, che senso avrebbe temere?
Però ciò che provo, ciò che sento, ciò che mi urge, devo esporlo, per cui lo faccio, lo faccio tranquillamente.
In me esiste un po’ di timore, che la mia compagna – ma forse è il caso che la chiamo col suo nome – sarebbe stupido continuare…. capisco, con questo mio atteggiamento di non so bene cosa… comunque si chiama Laura, sì, Laura è il suo nome…
Il mio timore è che L. non possa capire le cose che sto cercando di dire oggi, perché appartengono sicuramente molto di più allo S. di oggi, che non allo S. di allora.
Non che lo S. di allora fosse diverso da quello che è S. oggi; lo S. di oggi è ciò che era S. allora più alcuni grani di consapevolezza acquisiti in questo angolo ancora troppo buio, a volte.
Non capirebbe, non capirebbe perché….non perché non mi conoscesse, perché ben conosceva S., non c’è dubbio, ma la percezione che di S. lei aveva è diversa, l’immagine, la definizione di S. di allora e della percezione sua, di lui, sarebbe in qualche modo oggi scossa, ma questo perché io sono stato incapace di darle la mia misura completamente, ma cercavo comunque di mantenere un ruolo, un’immagine, una maschera che avevo ben indossato e che aveva reso bene e mi aveva comunque dato soddisfazione.
Ciò che io traevo dalla mia commedia – commedia sarebbe forse una parola un attimo grossa, esagerata – ciò che io traevo dal mio modo di fare, di pormi a lei, innanzitutto – perché è di lei che sto cercando di parlare, del rapporto che con lei avevo, ciò che io traevo da questo rapporto mi soddisfala, mi era caro e io avevo timore a rinunciarvi, perché in fondo era forse l’unico – per completezza – rapporto che io avevo.
Ecco, il timore che nasce oggi, è che con difficoltà L. capirebbe ciò che sto dicendo e ciò creerebbe in lei, probabilmente, confusione e turbamento, e non voglio che avvenga…non voglio che avvenga.
Credo però che io debba continuare ad esprimere S., proprio qui, con voi, e continuerò a farlo.
Siete gli interlocutori giusti, in fondo; non vi conosco, se non superficialmente, non siete riusciti a farvi un’immagine precisa di ciò che S. è, del suo ruolo, non avete delle aspettative nei miei confronti e questo forse è il punto più importante, è il cardine di quello che è il nostro rapporto e questo mi permette di non per forza cercare di soddisfare queste aspettative, ma cercare di essere tranquillamente ciò che sono. In fondo, stavolta, sono io ad avere aspettative nei vostri confronti, non conoscendovi; certo, è vero, ma questo è un requisito indispensabile per quello che deve essere il nostro rapporto, non conoscendovi.
Non voglio farmi delle menate mentali, non voglio costringermi a costruire strumenti per poter essere con voi; voglio essere tranquillamente, come scoprire un otre e lasciare fluire da esso ciò che in esso si trova. Io voglio continuare, per così come è stato venerdì, a parlare dell’immagine che io davo al mio bisogno, degli strumenti che ho utilizzato allora, rendendoli in parte palesi, ma perlopiù riservandomi la coscienza di essere.

Sapeste quante volte nella mia mente ho rimuginato, sperando di avere soddisfazione per quello che era il mio punto di vista, per quello che era il mio bisogno, per quella che era la definizione che io al bisogno mio davo, e accusavo, incolpavo gli altri di non essere in grado, di non volere anche – diciamolo, sì – di non voler capire fino in fondo qual’era il mio bisogno.
Io sentivo forte questa sensazione, sentivo questa violenza ma, credetemi, poco ho fatto per cercare di superare questo scoglio, questa incomprensione. Aspettavo che gli altri venissero a me; in fondo tutta la mia vita, quantomeno gli ultimi anni, era stata un mio andare verso gli altri e offrire agli altri soluzioni….
Ecco, però, cosa facevo se non offrire soluzioni? In fondo io avrei dovuto offrire S. a loro; io offrivo invece ciò che S. poteva fare, perché mi coinvolgeva non più di tanto e questo mio poco coinvolgermi mi permetteva in qualche modo di ricevere quello che io credevo desiderare.
Allora cercavo di fare intravedere a piccoli sprazzi ciò che era il mio bisogno, la mia difficoltà, sperando…sperando e ancora sperando che gli altri si accorgessero, capissero e mi evitassero di esprimerlo, questo mio bisogno.
Ve lo dissi già venerdì scorso, io non so ancora qual è la cosa che mi mancava e ciò che doveva succedere affinché io potessi colmare questo mio bisogno, questa ingiustizia che io sentivo da parte degli altri nei miei confronti. Ho cercato di mascherarlo, ve lo dissi, e ho utilizzato come prima cosa la più elementare, la più legata all’essere uomo, fisico: la mia impotenza. Fatemelo ripetere ancora questo termine, l’impotenza di S..
Capisco..capisco che anche questo era uno strumento in fondo, era un cavallo di Troia che portava dentro di sé, con fattezze diverse da quelle che erano il contenuto, il bisogno, e lo portassero avanti, lo trascinassero agli altri. Il mio cavallo di Troia era il sesso e la mia incapacità, il mio bisogno; sapeste quanto mi arrovellavo nel mio pensare quali potessero essere i modi, le disponibilità della mia compagna che mi permettessero di risolvere questa mia incapacità, questa mia impotenza che mi rendeva monco, mi rendeva incapace.
Cercavo di offrire un’immagine di impotenza di S. attraverso questa visione, che in fondo non era semplicemente una visione, ma è anche vero che il sesso non era poi così importante per me –non allora –dopotutto. La carne urlava già di suo conto, non aveva bisogno di utilizzare altri modi per far capire che urlava, però ho voluto utilizzare quell’immagine dell’impotenza.
Me ne vergognavo molto, ero incapace, ma non di provare soddisfazione, ma di dare soddisfazione alla mia compagna. Questo fu il primo pensiero, forse il più nobile, ma attraverso l’incapacità di dare soddisfazione alla mia compagna io non davo soddisfazione a me stesso e, in fondo, ciò che mi rodeva era questa insoddisfazione mia, non l’insoddisfazione che davo alla mia compagna….ma difficilmente ripeterei questa affermazione. Ma so che era così, ne sono certo.
Avrei dovuto semplicemente smascherare questa mia insoddisfazione e chiedere aiuto allora…dare voce alle mie immagini, alle mie fantasie e renderle palesi alla persona che credevo mi amasse e alla persona che io credevo di amare e io sono certo che non la stessi amando in quel momento, non sono altrettanto certo che lei non mi amasse, però mi è più facile dire che fu insensibile e cieca, indisponibile, lontana, fredda.
Aspettavo in fondo ancora qualcuno che mi provocasse affinché attraverso la mia reazione rendessi palese, comprensibile, il mio stato…ma perché chiamarlo stato, se si chiamava bisogno? Bisogno di essere aiutato, accettato per la mia impotenza, per la mia incapacità. Questo primo mascherare, velare la mia difficoltà, ha creato una catena che poi si è trascinata, amplificando l’azione per ciò che fu la mia vita. Ma quegli ultimi mesi, grato fui di poter incolpare la mia malattia, del mio stato, della mia incapacità di essere presente, della mia non volontà di amare. Non ho saputo donare alla persona che mi era accanto il mio essere fragile, bisognoso.
Lasciatemi ancora un attimo a sbrodolarmi, ne ho bisogno; uno S. sbrodolato, in fondo, è uno S. nuovo, interessante, e a me è sempre piaciuto di essere interessante.

E’ attraverso l’espressione di una difficoltà così intima, che appartiene ad una sfera che – a mio modo di pensare ancora oggi – è legata ad uno stato quasi animale che mi permette di poterla superare..non lo so…capisco però di averne bisogno ancora oggi, pertanto è giusto, è dovuto che io lo esprima.
La cosa che temevo di più, per ciò che mi ricordo, era il rifiuto; pormi fragile, vulnerabile, un pochino sporco, di fronte alla persona che amavo, mi faceva temere un suo rifiuto.
Avrebbe potuto essere possibile che lei rifiutasse uno S. che non conosceva, del quale non aveva misura, sensazione; per forza avrebbe cercato in qualche modo di poterlo aiutare, di far sì che non pensasse, non si crogiolasse in questo modo…certo per aiutarmi, non c’è dubbio, mi voleva bene! Il timore più grande era questo e ne sono certo oggi: il timore di essere rifiutato. Mal giudicato non mi interessava, in fondo che importanza poteva avere? Ma essere rifiutato sarebbe stato più difficile per me. Certo, ammalato,certo…sragionavo…ma rifiutato, no.
Sapeste cosa passa nella mente di una persona che ha bisogno.
Di un uomo –non chiamiamola persona –in fondo io ho coscienza di ciò che era un uomo in difficoltà….mi piacerebbe darvene misura, ma non ne sono ancora capace.
Lasciatemi ora……..

Ancora , adesso io, Emanuele, per il cerchio, il cerchio spiritico.
Temo, sono sicuro che comunque anche per S. il termine cedere avrà la sua importanza. Cedere alla debolezza, cedere alla difficoltà, cedere al bisogno. Ma ci sarà anche un altro cedere di cui sarà importante con lui parlare e sarà il cedere alla malattia.
E’ un’affermazione che può non essere completamente chiara, va definita sicuramente, va chiarita, va calata in ciò che stiamo dicendo, stiamo facendo, ma sarà una frase che avrà la sua importanza in futuro e sicuramente dovrà averla e sarà il cedere alla malattia. Io non ho molta coscienza vissuta di quello che è stata la malattia, almeno.
Sapete, ve lo dissi, io fui ucciso; non ebbi modo di poter capire, sperimentare, passare attraverso la malattia, pertanto può apparire vuoto ciò che sto dicendo, sicuramente, ma so che è una traccia che aleggia, è qui e ci lega, dà senso, ha peso.
Parleremo ancora molto del cedere, io credo, e sarà importante che voi parliate molto del cedere e di ciò che debba essere, ma innanzitutto di ciò che è per ognuno di voi.
E’ tempo, è tempo per me ora di terminare, a voi tutti il mio saluto, arrivederci.

Ancora, adesso io, A., per il corpo comune.
Io non sono troppo d’accordo con ciò che ha detto Emanuele, cedere alla malattia, anche se bene non so cosa lui voglia dire, ha un suono strano per me e non ho voglia di pensarci.

Comunque …la catena, è per questo che siamo qui, per la nostra catena, il corpo comune.
Cerchiamo gli amici che con noi la compongono, i nostri cari, cerchiamo suggestioni affinché ce li portino qui fra noi, con noi,e ci diano il loro aiuto, il loro peso che grande è, importante, indispensabile. Visualizziamo i loro visi, cerchiamo i loro richiami e i nostri richiami, affinché possano essere qui con noi.
Claudia, aiutaci a portare Tullio qui con noi…ci puoi riuscire?
Evocalo per noi, ponilo accanto a te e rassicuralo.

Accendiamo la candela, è di fronte a C., le illumina il viso….è il nostro punto di partenza.
Cerchiamo di cogliere l’energia che in questa catena scorre, ci unisce e tranquillamente lasciamoci colmare da essa, certi della protezione, della forza, della bontà.
Lasciamo ora C., visualizziamo il nostro prato, lo spazio all’interno della catena, è un prato fiorito, luogo di pace…..
Lasciamo ora i nostri amici e i nostri cari, ringraziamoli per la loro presenza.
E’ vero, io a volte sono un po’ troppo impulsivo, lo capisco. Reagisco sempre troppo in fretta, è vero……però l’affermazione di Emanuele non mi permette di non reagire, di stare tranquillo e certo….molte volte, sono convinto…in fondo io so il suo valore e capisco che a volte serve che io faccia l’asino affinché si possa capire meglio e dovrei permettergli forse di spiegare meglio, di affrontare un po’ meglio ciò che viene detto, invece di reagire in questo modo, però….proprio forse perché lui attraverso la malattia non è passato, non può rendersi conto di quanto può essere pesante la sua affermazione perché, è vero, lui ha avuto la possibilità – e sarebbe piaciuto molto anche a me , io credo –era ben vestito, era….era il martire, in fondo, colui che veniva bruciato per le sue idee.

Ben più carnale, umorale è la malattia, lo star male, il dolore, la difficoltà, e cercare di dare a questo passaggio……..lasciamo perdere……è vero…….

Vado ora. Un bacio a te C., e a voi tutti, amici.