venerdi sera gruppo di ricerca medianica e spiritismo

Quelli che sono morti non se ne sono mai andati sono nell’ombra che si rischiara e nell’ombra che si ispessisce I morti non sono sotto la terra sono nell’albero che stormisce, sono nel bosco che geme, sono nella dimora, sono nella folla Ascolta più spesso la voce del fuoco, odi la voce dell’acqua ascolta nel vento del cespuglio i singhiozzi è il soffio degli antenati I morti non sono sotto la terra, sono nel seno della donna. sono nel bimbo che vagisce sono nel fuoco che si spegne

Nome:

08 aprile 2009

treaprile 09

Il mio nome era S. e ancora oggi S. io mi chiamo.

Tanti bei discorsi che hanno la loro grazia, hanno la loro parvenza, ma sono come una canzonetta che dà note piacevoli, senza mai toccare in profondità come dovrebbe fare una vera musica.
Non so…non so, io cerco di confrontarmi con le cose che voi state cercando di dire, non ho altra possibilità, ve l’ho detto, io sono qui…ascolto.
La prima cosa che mi fa reagire, però, è che non sempre avviene così come voi volete far apparire. Molte volte le cose ti cascano addosso, molte volte qualche cosa ti costringe in un angolo e puoi cercare di reagire, puoi cercare di esprimere volontà, direzione, ma non ci riesci perché l’angolo è diventato angusto e qualsiasi direzione prendi tu porti la tua testa a cozzare contro l’angolo più vicino. Io non so se veramente si possa sempre e comunque avere la possibilità di scegliere, di esprimere una scelta vera.
Tutto quanto mi fa pensare alla nascita, a quella che avrebbe dovuto essere la nascita di S…….forse S. non è morto…ma non è mai nato. Non capisco, non trovo motivi per poter capire e dire…
Sono certo che qualcosa doveva avvenire, ma ho sempre pensato che fosse qualcosa che qualcun altro avrebbe dovuto darmi, quale fosse la medicina, l’elisir.
Io sono qui che chiedo di morire e mi domando se mai sono nato. Forse la situazione del “prima” era l’essere vivo, l’essere un uomo incarnato, e l’attesa è perché io possa esprimere una scelta - come dite voi – di libero arbitrio per poter nascere e arrivare ad autodefinirmi…ma come è possibile se tutto quanto attorno a me è vuoto, buio e pare che solamente le mie orecchie funzionino per ascoltare ciò che qualcun altro dice?
Come posso io realmente esprimere una scelta di libero arbitrio, che poi è anche facile dire “scegliere”, ma abbiamo veramente visione di quella che è la possibilità della scelta? Io credo che la vera scelta sia sempre e comunque fra due possibilità ma quasi sempre avviene che le possibilità diventano tre, cinque, dodici, infinite e questo ti porta a diluire, a disperdere quella che è la vera possibilità di scelta.
La scelta dovrebbe veramente essere fra due sole possibilità: bianco e nero, positivo e negativo, buio e chiaro…ma se cerco di leggere quali sono state le mie scelte, credo che mai ho avuto questa netta possibilità di scegliere. Avrei potuto fare questo oppure quello, oppure quell’altro ancora, così è stato per la mia malattia. All’insorgere di essa la cosa più semplice era dire “è il medico, è la medicina che, come sempre hanno fatto, anche stavolta risolveranno questo mio difficile momento, questo danno che il mio corpo sta subendo”, ma quando mi accorsi che questa volta il meccanico non avrebbe riparato la macchina, dovetti cercare di capire quale sarebbe stata la mia presenza in quel momento di malattia, come avrei potuto far sì che S. fosse uno S. malato che cercava di risolvere questo suo stato di malattia. Non seppi dove sbattere il capo; cercai, ravanai, frugai…
Pian piano la rassegnazione mi portò a cercare di rendere più acuto un senso che fino ad allora poco avevo usato; era un senso legato alla sensazione, all’impressione, alla nota diversa da ciò che avveniva attorno a me…ma anche quando intuivo che esisteva una possibilità mi era difficile far sì che io, S. , fossi presente in quella possibilità. Sempre fui convinto che l’aiuto potesse venire da qualcuno, da qualcosa al di fuori di me …finche non definii, raffigurai la mia possibile guarigione attraverso l’apertura di quel benedetto rubinetto, ma anche allora capii che ci doveva essere qualcuno che forzasse l’inerzia di quel rubinetto che io non ero in grado di svitare…ma probabilmente serravo sempre più. Ma era difficile cedere. Ero comunque io quel rubinetto e quando qualcuno poneva le sue mani su di esso io mi ritraevo e volevo esser lì e capire se la direzione attraverso la quale veniva fatta forza era la direzione giusta, che portava all’apertura e allo sgorgare da esso di ciò che era ritenuto dentro.


Fu facile per me dare la colpa a qualchedun altro, fu facile incolpare, fu facile per me subire il torto o credere di subirlo…ma anche allora non fui io a scegliere, ma non perché non lo volli fare ma perché non intravidi una possibilità di scelta, cosa fare o cosa non fare. Che poi è comunque sbagliato: la risposta è cosa fare o cosa fare. Io non feci.
Sono un poco spaventato…..
D. (N) Ma quel rubinetto tu lo senti ancora chiuso?
Io non riesco più neanche ad afferrarlo oggi. Io non capisco…io non vedendo, non toccando, non…. Mi spaventa pensare di dover nascere invece che morire; ho paura, non mi sento capace…mi sento impreparato, solo.
D. (N) Ma tu pensi che nascere sia l’unica soluzione?
Non capisco. Io, in questo essere sospeso non posso che altro cogliere se non parole che qualchedun altro pronuncia e butta in quello spazio che è attorno a me. Sono disponibile, mi pongo qui.
Credere che esistano delle leggi che comunque sostengono e intessono lo spazio intorno a me, in qualche modo conforta il mio essere solo.
Vorrei tanto essere in grado di abbandonarmi ad esse e non per forza di cose dover scegliere, anche perché ancora e di nuovo non capisco che cosa mi pone da essere scelto. Sono certo di non più poter tornare ad essere ciò che ero, sono certo che mai più potrei vestire gli abiti. Ma cos’altro?
Già il pensare che mi rimanga qualche cosa mi dà….

Il desiderare di volere e poter risalire la corrente per arrivare a comprendere ciò che è già avvenuto diviene auspicabile perché si intravede la possibilità di andare a un tempo in cui le cose erano definite, precise, stabili, e risalendo la corrente poter avere visione più precisa, originale; ma credo che sia importante comprendere che comunque, se foste in grado di poter risalire e rimontare a prima della scelta dell’incarnazione, ben difficilmente potreste essere in grado di comprendere.
Il superamento del limite che è legato all’incarnazione, all’essere uomo, non può a ritroso essere effettuato. Ciò che è avvenuto è immutabile…ciò che è avvenuto ormai è. L’unica possibilità è proseguire poggiando su ciò che si è e elaborando la coscienza di essere veramente ciò che si è in quel momento. La fuga all’indietro come la corsa in avanti non hanno senso.
L’unico modo per trascendere ciò che è la condizione umana è creare quell’attimo magico, sacrale, in cui poter guardare oltre e al di fuori cosa appare, se in grado sareste di comprendere ciò che là esiste. È perciò che è indispensabile trovare un mezzo, uno strumento, colui che si pone aldilà della porta, nel varco.
Già vi dissi, è immutabile ciò che si trova aldilà e al di fuori: è e nulla più. La staticità del Divino è condizione indispensabile per impedire la negazione di Esso; ben difficilmente potrebbe essere giudicabile. Tutto ciò però contrasta nell’affermazione che l’uomo è la scintilla più simile a ciò che il Divino è…perché la tendenza, la difficoltà, la caduta, è quella di cercare di credere che sia l’aspetto…..
Dio, il Divino, per l’uomo rimangono sempre e comunque una presenza ingombrante, già ve lo dissi; sono il concentrarsi di ogni qualsiasi possibile azione e l’impersonificazione di essa.
In questo modo si va a concentrare, a condensare in un’unica realtà ciò che è la miriade di possibilità definite singolarmente una per una, classificandole con precisione da certosino, facendone delle precise categorie, scelte, definizioni, famiglie, che vanno tutte quante a rendere somma in quelle due affermazioni che sono bene e male. Ma per forza di cose devono ambedue andare a condensarsi, a concentrarsi in quell’unica immagine che dovrebbe essere Dio, che tutto quanto frulla, condensa, comprende. Abbiamo inventato la dualità; l’uomo, per la propria salute mentale, ha dovuto definire ciò che è e tutto quanto non può essere, per ricondurlo………………
Ma in fondo la dualità non è servita ad altro che a creare un’unica distinzione, ed era dell’essere individuale, l’Io, da una parte, e tutto quanto – tutti quanti sono gli altri – dall’altra parte.
Io come unico possibile, capace…Io come unico possibile donatore di bene e tutti gli altri a contrasto, intralcio…zavorra. La dualità mi permette di essere colui che…………………………..