venerdi sera gruppo di ricerca medianica e spiritismo

Quelli che sono morti non se ne sono mai andati sono nell’ombra che si rischiara e nell’ombra che si ispessisce I morti non sono sotto la terra sono nell’albero che stormisce, sono nel bosco che geme, sono nella dimora, sono nella folla Ascolta più spesso la voce del fuoco, odi la voce dell’acqua ascolta nel vento del cespuglio i singhiozzi è il soffio degli antenati I morti non sono sotto la terra, sono nel seno della donna. sono nel bimbo che vagisce sono nel fuoco che si spegne

Nome:

05 marzo 2009

ventisettefebbraio 09

Il mio nome era S. e ancora oggi S. io mi chiamo.
Il mio essere con voi oggi ha una grande differenza per quello che era il mio essere con voi allora, al nostro primo incontro. E la grande differenza è la mancanza dell’urgenza, lo scandire del tempo, la corsa verso quella lavagna nera che mi si prospettava e che io non riconoscevo, che io sentivo estranea, quasi violenta nei miei confronti…quasi io dovessi andare a cozzare contro di essa fino a morirne. Era sicuramente una lavagna rigida, dura…una superficie sulla quale avrei provato dolore a sbattere, e la sensazione dell’avvicinarmi io ad essa era opprimente, era difficile; avevo paura, ed ogni cosa che mi permetteva di rallentare questa mia caduta verso di essa era benvenuta, era auspicabile, era amica.
La differenza oggi è che…sì, è vero, mi trovo in una situazione che non sento mia, che sento non si addica a ciò che è S. E’ comunque una situazione stabile, che non crea urgenza e questo mi permette di essere più paziente, di essere più tranquillo.
In fondo le aspettative che oggi mi pongo non sono poi molte e non sono poi così lontane, non dipendono dalla scelta di altri, non dipendono dall’azione di altri, ma solamente da un coinvolgimento, da una comprensione, io credo. Questo mi aiuta, questo fa sì che io non debba spingere, trascinare, faticare.
Non credo che il fatto che voi aveste una filosofia che dava senso alla vita dopo la morte fosse la cosa preziosa che avrebbe potuto aiutarmi, perché in fondo io non la riconoscevo allora, sentivo che non era vera, sentivo puzza d’incenso, sentivo falsità, perbenismo. Non avevo ancora misurato ciò che era la morte fisica…non era altro che una dura lavagna contro la quale sbattere fino a morirci, nello stordimento, al buio.
Oggi so per certo che non è così, oggi so per certo che quella lavagna è divenuta così permeabile fino ad inghiottirmi completamente e a stabilizzare quella che era la mia caduta. Ma ciò che emerge dai vostri discorsi, se avviene per voi avviene anche per me, lo stimolo a cercare di vedere, di comprendere, di essere finalmente in grado di vedere.
Io credo vera l’affermazione che il dono sia il privarsi di qualche cosa, privarsi di qualche cosa di cui sentiremo la mancanza…e se il dono non era altro che una filosofia, una visione, una spiegazione, non poteva altro che essere un dono che accresceva ciò che era la portanza di chi offriva la disponibilità in quel momento…non poteva certo essere il privarsi di qualche cosa di cui avremmo sentito la mancanza. Oggi riesco a comprendere che la privazione, la mancanza, non è altro che il cambiamento.
Se siamo in grado veramente di donare qualcosa a qualcuno che amiamo, la conseguenza di questa nostra azione non porta che a un cambiamento e se questo cambiamento non avviene, il dono non c’è mai stato.
Capisco che debba essere importante per me spiegare ciò che sto dicendo, ma posso farlo cercando di tornare ancora ai tempi della mia malattia. Io ero certo che se volevo essere aiutato da voi dovevo far sì di poter in qualche modo cambiare ciò che era la mia situazione; io avevo raffigurato questo cambiamento attraverso l’apertura del rubinetto che io avevo considerato già chiuso, che però ero certo avrei potuto nuovamente aprire…ma oggi ho piena visione e comprensione che l’aprire quel rubinetto non sarebbe stato vivere come avrei vissuto, come vissi fino a quel momento, perché proprio il vivere in quel modo – sono certo – mi aveva portato alla malattia…per cui l’apertura del rubinetto, per cui la guarigione non era altro per me che un cambiamento.
Da quel rubinetto avrebbe dovuto sgorgare qualcosa di ben diverso da ciò che era stato S. fino alla crisi della malattia. Sono anche certo che l’apertura di quel rubinetto non avrebbe portato a far sì che S. potesse continuare la sua vita così come era stata, da essere che cammina, che pensa, che agisce.
Oggi ho piena coscienza che esiste un cammino, un vivere anche dopo che il nostro corpo è morto.

Non capisco bene, non riesco a comprendere in quale modo, con quale veste; probabilmente non è altro che il dilatare la vita fino a quel momento, attraverso una veste diversa…probabilmente il nostro corpo, il nostro essere non muore veramente quando il nostro corpo cessa di vivere ma qualcosa avviene anche dopo…ma non posso pensare che sia qualcosa di diverso dalla vita che è stata fino ad allora. È un vivere ancora, con vesti diverse.
Non voglio cercare di inserire questa mia affermazione in un disegno più grande; dovrei dipingere con pennelli che non conosco, con immagini che ho sempre considerato false e tendenti a ottenere qualcosa da me, che io non ho mai permesso…per cui la mia vita è continuata, io sono ancora vivo, ne sono certo, non vi è dubbio che ancora oggi S. viva.
Se avessi aperto quel rubinetto cosa sarebbe cambiato?
Io so per certo che qualcosa sicuramente sarebbe cambiato, non chiedetemi in che modo o con quale veste. Lo so, se avessi potuto utilizzare ancora quel corpo che ormai aveva cessato, per forza di cose era deteriorato, dilaniato, era impossibile che potesse essere macchina ancora capace.
Se fossi stato in grado di aprire quel rubinetto, cosa mai sarebbe avvenuto?
Che ci fosse un rubinetto da aprire sono sicuro, lo ero allora ma lo sono ancora oggi; che voi sareste stati in grado di aiutarmi lo ero certo allora come sono certo anche oggi. Avrei dovuto però cambiare, avrei dovuto accettare, riconoscere, abbracciare, chiamare col mio nome uno S. che io non conoscevo allora e che temo di non conoscere anche oggi ancora.
In fondo credo che sia questo che vi sto chiedendo adesso, qui: permettermi di aprire questo rubinetto e di accettare ciò che da esso possa sgorgare. Ma se tutto quello che ho detto è chiaro per me, rimane quello che è il vostro ruolo.
L’affermazione che ho fatto che il dono è qualche cosa che daremo, che offriremo, e di cui sentiremo la mancanza, ha da valere anche per voi. Io credo che ci siano uomini che passano la vita cercando di definire una filosofia di vita, un disegno, un’immagine che possa soddisfare la propria ricerca…ma se sprecano la loro vita solo per questo motivo, senza null’altro, hanno gettato via la propria vita.
La ricerca ha funzione, ha senso nel momento in cui porta ad una comprensione, fino a giungere a quella parola che temo, che è il cambiamento. La soddisfazione della ricerca è in funzione del cambiamento; nel momento in cui saremo in grado di offrire noi stessi a qualchedun altro avverrà un cambiamento in noi e non ci sarà possibilità di ritornare indietro perché sarà una verifica fatta, sarà una coscienza acquisita, sarà una maturazione, un grano di consapevolezza. Ma il timore grande è pensare di poter cambiare. Se l’incontro è con una persona malata è facile dare una giustificazione al timore; la malattia è buia, il dolore è cupo, sordo…condividerlo è difficile, indossarlo, farlo proprio, è illogico, difficile.
Allora diventa ben facile ritrarsi e fermarsi a quelle che sono le parole, le intenzioni, porsi l’aureola sul capo e forti, protetti da essa, sbrodolare.
Mettersi in gioco vuol dire non temere il cambiamento, la possibilità che porta ad uno stato di non ritorno, ad un gesto compiuto, non semplicemente abbozzato, non semplicemente mostrato, disegnato e raccontato.
Io non so quale debba essere per voi il dono che porta la mancanza, io sto cercando di intravedere in me, ma non sono pronto a donarvi nulla…ma già credere alla bontà del dono è utile per me, è foriero di buoni auspici, di via d’uscita.

Perché mai l’uomo possa desiderare per sé l’inferno, quando intravede la luce, la consistenza, la verità dell’essere divino in sé? E, credetemi, è possibile girare il capo e affrontare ancora e ancora tribolazione.
La risposta credo che sia semplice, chiara. Nel momento in cui l’uomo cessa la sua vita e il Divino che è intravede in sé lo riconosce come un’entità a sé stante, da ciò che è la propria intima individualità…teme di dover subire. Affermando attraverso il proprio libero arbitrio la negazione di quella parte divina che intravede, afferma la potenza dell’individuo, intravedendo in sé l’onnipotenza di Dio, ma è un grave peccato, errore, credere di non essere parte del Divino ma di essere lui stesso il Divino.
Dio è la completezza di ogni singolo particolare della creazione, sia esso uomo, donna, insetto, pietra, foglia, elemento.
La completezza, l’unione, la comunione di tutto ciò è l’essere Divino. La follia di onnipotenza fa pensare che anche l’inferno sia desiderabile. L’individualità ha da essere superata, ha da essere coscientemente abbandonata affinché l’essere unico possa tornare tale.
Ma non esiste urgenza, come non esiste scampo a che tutto torni a ciò che era.